Attività edilizia legittima anche se permesso di costruire non è ritirato.
TAR, Lombardia, sez. II, sentenza 14/11/2017 n° 2173
Il mancato ritiro del permesso di costruire rilasciato dal Comune non ne comporta la decadenza di diritto. Né, di conseguenza, comporta la necessaria demolizione dell’intervento edilizio realizzato in conformità al titolo stesso.
Il TAR Lombardia, sez. II, con la sentenza n° 2173 depositata il 14 novembre scorso bacchetta il Comune di Merate. Quest’ultimo ha infatti rilasciato il permesso di costruire a fronte di una richiesta avanzata dal ricorrente, che, tuttavia, ha (negligentemente) omesso di ritirare il titolo abilitativo.
Può tale negligenza comportare la decadenza del titolo e, di conseguenza, l’illegittimità dell’attività edilizia?
Il Comune ha ritenuto di si, intimando il ricorrente alla demolizione del fabbricato, pena l’acquisizione al patrimonio del Comune del bene, dell’area di sedime, nonché di quella analoga necessaria per realizzare analoghe opere abusive.
La scelta lascia tuttavia perplessi: la fattispecie che disciplina il regime del permesso di costruire nulla dice sul mancato ritiro. E tanto fa notare il TAR, adito dal ricorrente per l’annullamento dell’ordinanza comunale e per il risarcimento del danno.
Il permesso di costruire è infatti un provvedimento ampliativo di tipo autorizzatorio per il quale la legge non prevede una fase integrativa dell’efficacia, rappresentata dalla comunicazione all’interessato. Dunque, il provvedimento produce i suoi effetti allorché venga rilasciato.
Ciò posto, l’art. 15, secondo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001 indica espressamente i presupposti di decadenza ipso iure dal permesso di costruire: il mancato inizio dei lavori entro un anno dal rilascio del titolo e la loro omessa conclusione entro tre anni dall’inizio.
Ed allora, se non fosse stucchevole, sembra qui più che mai calzante il vecchio adagio ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit.
Il mancato ritiro non è stato indicato tra i casi di decadenza ipso iure, né, come poco sopra dimostrato, può desumersi dai principi generali che regolano l’efficacia del provvedimento.
A ciò si aggiunge un ulteriore profilo.
Il Comune resistente non ha criticato la condotta dell’istante sotto il profilo del mancato rispetto dei termini o della conformità dei lavori alle prescrizioni del titolo abilitativo, ma unicamente per il mancato ritiro del titolo.
L’ordinanza impugnata nasceva dunque sullo sfondo di una cronaca di morte annunciata, dove la scure del TAR non ha potuto lesinare di abbattersi, pronunciandone l’annullamento.
Un’ultima osservazione, anche se del tutto marginale. La sentenza conferma ancora una volta il radicale mutamento del processo amministrativo.
Il ricorrente ha infatti proposto azione di annullamento unitamente alla richiesta di risarcimento dei danni, senza tuttavia indicare i fatti costitutivi del danno e le conseguenze pregiudizievoli patite.
Sono ormai lontani i tempi di supplenza giudiziale dell’inerzia delle parti. Se queste hanno la possibilità di disporre di tutti gli elementi fondanti la causa petendi, hanno l’onere (formale e sostanziale) di dimostrare i fatti che sorreggono la domanda in conformità al principio dispositivo. Se ciò non sempre accade nel tradizionale giudizio cassatorio, del tutto diverso è il panorama nel giudizio di condanna al risarcimento dei danni, in cui le parti conoscono o possono conoscere la fonte dei danni patiti e, soprattutto, la loro entità.
Il mancato assolvimento dell’onere della prova, quindi, destina la domanda alla reiezione, come nel caso di specie.